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Structural biology: Breaking the protein rules 19 marzo 2011

Posted by michele&martina in biologia.
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by Tanguy Chouard

If dogma dictates that proteins need a structure to function, then why do so many of them live in a state of disorder?

 

Published online 9 March 2011 | Nature 471, 151-153 (2011) | doi:10.1038/471151a

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Tumour-supressor protein p53 contains an ordered, globular domain (brown); its disordered segments (colours) help it interact with hundreds of partners

 

“Sporchi” è meglio 19 marzo 2011

Posted by michele&martina in medicina.
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Il 24 febbraio scorso, il dottor Markus Ege e colleghi hanno pubblicato  sul “New England Journal of Medicine” uno studio sull’incidenza dell’asma e dell’atopia (predisposizione genetica a sviluppare reazioni anafilattiche localizzate in seguito a contatto con allergeni) in bambini che vivono a stretto contatto con la natura, rispetto a bambini che vivono in un ambiente più “antropico”.

Di seguito è riportato l’abstract dell’articolo con relativa traduzione:

Background

Children who grow up in environments that afford them a wide range of microbialexposures, such as traditional farms, are protected from childhood asthma andatopy. In previous studies, markers of microbial exposure have been inversely relatedto these conditions.

Methods

In two cross-sectional studies, we compared children living on farms with those in a reference group with respect to the prevalence of asthma and atopy and to the diversity of microbial exposure. In one study — PARSIFAL (Prevention of Allergy— Risk Factors for Sensitization in Children Related to Farming and AnthroposophicLifestyle) — samples of mattress dust were screened for bacterial DNA withthe use of single-strand conformation polymorphism (SSCP) analyses to detect environmentalbacteria that cannot be measured by means of culture techniques. Inthe other study — GABRIELA (Multidisciplinary Study to Identify the Genetic andEnvironmental Causes of Asthma in the European Community [GABRIEL] AdvancedStudy) — samples of settled dust from children’s rooms were evaluated forbacterial and fungal taxa with the use of culture techniques.

Results

In both studies, children who lived on farms had lower prevalences of asthma andatopy and were exposed to a greater variety of environmental microorganisms thanthe children in the reference group. In turn, diversity of microbial exposure wasinversely related to the risk of asthma (odds ratio for PARSIFAL, 0.62; 95% confidenceinterval [CI], 0.44 to 0.89; odds ratio for GABRIELA, 0.86; 95% CI, 0.75 to0.99). In addition, the presence of certain more circumscribed exposures was alsoinversely related to the risk of asthma; this included exposure to species in thefungal taxon eurotium (adjusted odds ratio, 0.37; 95% CI, 0.18 to 0.76) and to avariety of bacterial species, including Listeria monocytogenes, bacillus species, corynebacteriumspecies, and others (adjusted odds ratio, 0.57; 95% CI, 0.38 to 0.86).

Conclusions

Children living on farms were exposed to a wider range of microbes than werechildren in the reference group, and this exposure explains a substantial fraction ofthe inverse relation between asthma and growing up on a farm.

Background

I bambini che crescono in ambienti con un’esposizione ad una vasta gamma di microrganismi , come gli allevamenti tradizionali, sono protetti da asma infantile e atopia. In studi precedenti, l’esposizione microbica è stata correlata in maniera inversa con queste patologie.

Metodologie
In due studi abbiamo confrontato dei bambini che vivono in aziende agricole con altri di riferimento per quanto riguarda la prevalenza di asma e atopia e la diversità di esposizione microbica. In uno dei due studi, detto PARSIFAL, dei campioni di polvere dal materasso sono stati sottoposti a screening per la presenza di DNA batterico. Nell’altro studio, detto GABRIELA, sono stati analizzati dei campioni di polvere dalle camere dei bambini, alla ricerca di batteri e funghi con l’uso di tecniche di coltura.

Risultati
In entrambi gli studi, la prevalenza di asma e atopia era inferiore rispetto ai bambini del gruppo di riferimento. In entrambi i casi, i bambini che vivevano nelle fattorie sono risultati essere esposti ad una maggiore varietà di microrganismi ambientali rispetto al gruppo di riferimento. A sua volta, la diversità di esposizione microbica è stata inversamente correlata al rischio di asma. Inoltre, la presenza di alcune esposizioni più circoscritte alla specie fungina Eurotium e a quelle batteriche Listeria, Bacillus e Corinebacterium, è stata inversamente correlata al rischio di asma.

Conclusioni
Bambini che vivono nelle fattorie sono esposti ad una più ampia gamma di microbi rispetto a bambini che vivono in ambienti più antropomorfizzati e questa esposizione spiega in maniera sostanziale la relazione inversa con l’asma.

 

a cura di Martina Chittani

Per saperne di più: Markus J. Ege, Melanie Mayer, Anne-Cécile Normand et al. (2011) Exposure to Environmental Microorganismsand Childhood Asthma. The New England Journal of Medicine, 364(8): 701-9.

Nel blu dipinto di blu 26 febbraio 2011

Posted by michele&martina in curiosità.
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Nessuna traccia di blu nelle pitture rupestri della preistoria, probabilmente perché quasi non esistono pigmenti azzurri in natura. Ma è la società a “fare il colore”, dice Michel Pastoureau, autore del libro Blu, storia di un colore. Storicamente, il blu era il colore dei barbari (Celti e Germani), che lo ricavavano da una pianta simile al cavolo, la Isatis tinctoria. I nobili romani lo disprezzavano, tanto che in latino, come in greco, non esisteva alcuna parola per indicarlo. Cyanos, il blu greco, è il colore della sofferenza: “cianotico” è una persona pallida, sofferente. Coeruleus, il latino azzurro, è un’altra parola per dire bianco; il vocabolo serve, infatti, a descrivere il colore della cera. Per i Maya il blu non si distingueva dal verde e dal punto di vista linguistico esisteva una sola parola per definirli entrambi. In sanscrito la parola nila significa sia nero che blu. Śiva ha la gola colorata di blu, segno del veleno che ha ingoiato ma che non l’ha ucciso; a Krishna invece è attribuito un blu tendente al grigio, come le nuvole di un uragano. Nell’Antico Egitto il blu era opposto al rosso ed era considerato il colore dell’introspezione e dell’infinito, era anche la tinta della pelle del dio dell’aria Amon. In Oriente era, invece, considerato positivo e protettore contro il malocchio; gli occhi blu, inoltre, si ritenevano segno di poteri magici, mentre in occidente gli occhi azzurri erano considerati segno di stupidità o di effeminatezza negli uomini e di lascivia nelle donne.

La riscossa del blu iniziò dopo l’anno Mille, quando Suger, l’abate di Saint Denis, teorizzò che la luce divina contenesse oro e blu: da allora il manto della Madonna si tinse di blu. Anche gli araldi iniziarono a includere il blu, da quando la monarchia francese lo scelse come sfondo del proprio stendardo. Quanto al sangue blu dei nobili, era dovuto alla frequenza di una patologia, l’“argiria”, un avvelenamento da argento, dovuto ai piatti in cui mangiavano e che dava un colore bluastro alla pelle; un’altra ipotesi è che, vivendo a lungo in locali chiusi e poco ossigenati, la pelle assumesse un colorito bluastro, per lo scarso apporto di ossigeno nel sangue.

Inizialmente il colore blu era ricavato dalla macerazione delle foglie di una pianta indiana del genere Indigofera; poi si pensò di applicare la stessa tecnica alle foglie della pianta utilizzata dai barbari, chiamata comunemente guado. Il Germania tingevano i tessuti lasciandoli a bagno in una mistura di guado, alcool e urina umana. Per produrla, gli artigiani si ubriacavano e smaltivano l’urina il lunedì, girono di riposo, tant’è che diventare blu è utilizzato come sinonimo di ubriacarsi e i lunedì blu sono quelli di vacanza. Dal ‘500 il blu ha soppiantato il rosso, probabilmente in seguito alla riforma luterana, che lo considerava onesto e spirituale, in contrasto al nero cristiano e solenne. I blu diventò il colore più indossato dai ricchi, tant’è che dal 1654 divenne il colore del diavolo. La svolta definitiva avvenne nel ‘700, quando il droghiere Heinrich Diesbach, creò accidentalmente la prima tintura blu economica, il blu di Prussia, mescolando potassa adulterata a cocciniglia e solfato di ferro. Da allora divenne il colore delle divise dei soldati prussiani, fino alla prima guerra mondiale.

Il blu ha effetti: a livello fisiologico (rallentamento del metabolismo, della tensione muscolare, dl battito cardiaco e della respirazione); a livello psicologico (comunica trasparenza, frescura, tranquillità); e a livello affettivo (spazio, viaggio, riposo). Oggi sul blu puntano i marchi che vogliono sembrare affidabili e rassicuranti: prodotti per l’igiene e la salute (dentifrici, farmaci tranquillanti, ma anche Viagra per assicurare una buona prestazione), linee aeree (Lufthansa, Delta, Air France, Ryanair), banche (American Express) e gioielli (Tiffany). Blu sono anche i simboli dei partiti conservatori, così come le divise di polizia e carabinieri e gli azzurri sono la squadra di calcio italiana.

Il blu è il colore preferito dalla maggior parte delle persone adulte, perché offre un rifugio dall’insicurezza, dalla paura e dalla precarietà; ma aumenta anche l’interesse per il colore complementare al blu, l’arancione, segno di vitalità, energia e fiducia.

E tu di che colore sei?

Martina Chittani

(per approfondire Michel Pastoureau, Blu, storia di un colore, Ponte delle Grazie editore)

Telefoni cellulari e incidenza di tumori cerebrali 25 febbraio 2011

Posted by michele&martina in medicina, tecnologia.
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Uno studio condotto da un gruppo di neuroscienziati del National Institute of Drug Abuse dell’ Istituto Nazionale di Sanità americano dimostra come una lunga telefonata possa determinare un aumento dell’attività metabolica in alcune aree del cervello, senza offrire però alcuna prova evidente a favore o contro l’affermazione che l’utilizzo di telefoni cellulari possa portare alla formazione di masse tumorali a livello cerebrale.

Pertanto, ad oggi, anche se alcune analisi statistiche rilevano un aumento dell’incidenza di tumori cerebrali negli utenti di telefoni cellulari, questi dati non possono essere direttamente collegati all’utilizzo dell’apparecchio, poiché non si hanno spiegazioni scientifiche plausibili.

E lo studio pubblicato sulla rivista JAMA lo scorso 22 febbraio (Volkow et al., Effects of Cell Phone Radiofrequency Signal Exposure on Brain Glucose Metabolism) ha cercato di dimostrare ciò, dopo aver sottoposto 47 tra uomini e donne a telefonate (mute) di 50 minuti, facendo posizionare il telefono cellulare vicino all’orecchio destro. Successivamente ai pazienti è stato iniettato nel circolo sanguigno del glucosio radioattivo, che per mezzo di scansione cerebrale tramite PET, ha permesso di rilevare i livelli di metabolismo cellulare. L’esperimento è stato ripetuto a telefono spento, senza esposizione a radiazioni elettromagnetiche.

Il gruppo di ricerca ha rilevato dall’analisi statistica dei dati ottenuti che l’aumento del metabolismo nelle aree cerebrali (corteccia orbito-frontale e polo temporale) esposte alle radiazioni è di circa il 7%. Quindi è dimostrato come il cervello umano sia sensibile alle radiazioni emesse da un telefono cellulare, ma non si hanno ancora risultati che facciano pensare ad una possibile influenza nella crescita tumorale.

Rimangono tuttavia da chiarire quali siano i meccanismi alla base di quest’aumento dell’attività metabolica. La comunità scientifica invita comunque a trattare con cautela questi dati, poiché in contrasto con i risultati sinora ottenuti da altri studi. A riguardo Patrick Haggard, neuroscienziato dell’University College di Londra ha fatto notare come gli esperimenti in realtà non siano stati ripetuti su altri gruppi di persone e come il fatto che i pazienti fossero a conoscenza delle fasi dello studio in cui i telefoni cellulari risultavano accesi o spenti possa aver influenzato i dati ottenuti.

Michele Stursi

Viaggio 3D nell’embrione di topo – a cura di Michele Stursi 24 febbraio 2011

Posted by michele&martina in tecnologia.
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Il Dottor James Sharpe del Centre for Genomic Regulation di Barcelona, ci parla dell’OPT, optical projection tomography, una tecnica da lui inventata nel 2001 e che ha permesso la realizzazione l’acquisizioni delle immagini per il video che potete visualizzare al seguente link:

http://bcove.me/3fj8z587

Ed ecco la spiegazione. Di seguito vi riportiamo la trascrizione dell’intervento e la traduzione in italiano.

Sharpe: OPT stands for optical projection tomography. The word ‘tomography’ itself simply comes from the Greek of tomos, meaning a cut or a slice. Before OPT there was a kind of imaging gap, where it was easy to take three-dimensional images of very small microscopic specimens with something called a confocal microscope and it was easy to take three-dimensional images of a whole human with things like MRI and CT scanning, but there wasn’t anything that was really ideally suited for samples that would be maybe between one millimetre and one centimetre, and OPT is kind of perfect for that size range.

The very first step is the labelling step of the sample, and this will vary very much from lab to lab as to what they’re trying to see. The first step that’s sort of OPT-specific is to embed the sample in a gel so that it can be held firmly so that when it’s rotated within the machine, we can rotate it to very precise positions. Once the agarose has set, we can then take this little block and glue one end of the block onto a metal mount. We then cut it into a block, and we then have to do this clearing process.

When you do staining, you do want of course the light to be absorbed rather than going straight through. But in order to pick up the labelled regions, ideally, the rest of the embryo almost becomes invisible. This allows you to get very sharp images and sharp reconstructions. This is the original – home-made, as we call it – OPT machine. The motor is here and this is connected directly to the position where the sample is attached. Down here, we have the imaging chamber.

On this side here, we have the transmission illumination. The basic idea is that you have to rotate your sample about a particular axis and then you have to image the sample from an axis which is orthogonal to that. This is the commercial version. Everything that you need is designed into the machine. The set-up is very similar to the original home-made version and we have the magnetic plate for attaching the samples and for allowing them to slide around in order to get their position right. The longest axis of the sample will be lying along the axis of rotation. This is the most optimal way to get good information out of the sample. Instead of focusing on a particular plane we actually focus all the way from the front to the back of the specimen. The 400 images, which is what we typically take, each one of them has lost the depth information and we only gain that back when we computationally integrate the images with each other.

One particular collaboration we’ve done which was very successful is using this to analyse mouse models of diabetes where the numbers of the islets of Langerhans, which is the little organ that produces insulin, gets reduced as diabetes progresses.

*****

Sharpe: OPT è l’acronimo di optical projection tomography (tomografia ottica di proiezione). La parola ‘Tomografia’ stessa deriva semplicemente dal greco Tomos, che significa “taglio” o “fetta”. Prima di arrivare all’OPT c’è stata una sorta di vuoto nell’imaging, poiché eravamo in grado di acquisire immagini tridimensionali di preparati microscopici molto piccoli con qualcosa chiamato microscopio confocale e allo stesso modo immagini tridimensionali dell’intera persona umana con tecniche come la risonanza magnetica e la TAC, ma non c’era nulla che fosse veramente ideale per campioni di dimensioni comprese tra millimetro e centimetro, e OPT rappresenta una tecnica perfetta per questo intervallo di grandezza.

Il primo passo è l’etichettatura del campione, e questo varia molto da laboratorio a laboratorio, da quanto si è potuto vedere. Il primo passo di questa sorta di OPT-specifico è quello di incorporare il campione in un gel in modo che possa essere saldamente trattenuto e quando viene ruotato all’interno della macchina, lo possiamo far ruotare in posizioni molto precise. Una volta applicato al campione il gel d’agarosio, allora possiamo prendere questo piccolo blocco e attaccare un’estremità del blocco su una montatura in metallo. Abbiamo quindi tagliato il campione intrappolato nel gel in un blocco, e a questo punto dobbiamo eseguire un processo di riduzione del blocco dal gel in eccesso.

Quando si esegue la colorazione, si vuole, naturalmente, che la luce venga assorbita piuttosto che andare dritta attraverso il campione. Ma al fine di raccogliere le regioni etichettate, idealmente, il resto dell’embrione diventa quasi invisibile. Ciò consente di ottenere immagini molto nitide e ricostruzioni abbastanza chiare. Questo è l’originale macchinario OPT – fatto in casa, come lo chiamiamo noi. Il motore è qui e questo è collegato direttamente alla posizione in cui è attaccato il campione. Giù qui, abbiamo la camera di imaging. Su questo lato qui, abbiamo l’illuminazione di trasmissione. L’idea di base è che si deve far ruotare il campione su un determinato asse e poi si deve immaginare il campione su un asse che è ortogonale a questo.

Questa è la versione commerciale. Tutto quello di cui avete bisogno è stato progettato nella macchina. Il set-up è molto simile alla versione originale fatta in casa e abbiamo la piastra magnetica per il fissaggio dei campioni e per permettere loro di scivolare al fine di ottenere la giusta posizione. L’asse più lungo del campione sarà disteso lungo l’asse di rotazione. Questo è il modo più ottimale per ottenere le informazioni giuste riguardo il campione. Invece di concentrarsi su un piano particolare focalizziamo effettivamente la nostra attenzione su tutto il campione, dalla parte anteriore alla parte posteriore. Ognuna delle 400 immagini, che sono quelle che noi in genere acquisiamo, non dà alcuna informazione riguardo la profondità del campione e noi otteniamo ciò nel momento in cui affianchiamo computazionalmente le immagini l’una all’altra.

Una particolare collaborazione nella quale abbiamo avuto ottimi risultati riguarda l’impiego di questa tecnica per analizzare modelli di topo per il diabete, dove il numero di isole di Langerhans, che è il “piccolo organo” che produce l’insulina, si riduce al progredire della patologia.

Fonte: http://www.wellcomeimageawards.org

Per saperne di più sull’OPT: James Sharpe, et al. – Science 296, 541 (2002)

Come porti i capelli bella bionda? 24 febbraio 2011

Posted by michele&martina in curiosità.
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I capelli, simbolo di virilità per gli uomini e di seduzione per le donne, non sono altro che filamenti di una proteina, la cheratina, addensati in cellule morte. Continuano, però a crescere di 0,4 mm al giorno, soprattutto tra le 10 e le 11 e tra le 16 e le 18, chissà perché? Ogni capello vive 4 anni e al girono ne perdiamo circa 75. Ognuno di noi ha circa 100 mila capelli, ma questo numero varia in base all’età e al colore dei capelli: un biondo ne ha 150 mila, un moro 110 mila e un rosso 90 mila; la densità è di 200-500 per cm2. I follicoli del capello sono inclinati di circa 75° sul cuoio capelluto. La forma si distingue in tre tipi:

−   ulotrichi: lanosi e crespi a sezione piatta, tipici delle etnie negroidi;

−   lissotrichi: lisci e a sezione rotonda, tipici delle etnie mongoliche;

−   cimotrichi: ondulati o ricci a sezione ovale, tipici delle etnie caucasiche (europee).

Lo spessore del capello varia in base alle diverse appartenenze etniche, e va da un minimo di 0,06 mm a un massimo di 0,1 mm. Il loro colore è determinato dalle melanine: l’eumelanina nei capelli scuri e la feomelanina nei capelli chiari; il colore, però è influenzato anche dai minerali contenuti in essi: ferro per i capelli rossi, piombo per i castani e magnesio per quelli neri. I capelli diventano bianchi per la perdita dei melanociti, le cellule che producono la melanina. I più diffusi sono comunque i capelli neri, mentre quelli in via d’estinzione sono quelli rossi; la colorazione rossa dei capelli è, infatti, legata ad un gene recessivo e ha probabilità 1/4 di presentarsi in una coppia di genitori che non hanno i capelli rossi, ma hanno entrambi la presenza del gene suddetto. Per una coppia di genitori in cui entrambi hanno i capelli rossi vi è invece la certezza che la prole avrà capelli rossi. I capelli rossi sono associati anche ad altre caratteristiche corporee, in particolare pelle bianca con presenza di efelidi. Il cognome più diffuso in Italia, Rossi, denotava il colore dei capelli.

Ma a cosa servono? Nati come organo di senso tattile e termico e come protezione dal freddo, sono poi divenuti espressione della propria identità.

Sui capelli esistono molte credenze: le mogli dei marinai non si tagliavano i capelli prima che i mariti non fossero ritornati sulla terraferma, pena disgrazie o sventure; si pensava che portasse male tagliare i capelli a un bimbo prima di che abbia compiuto un anno; nella stessa Bibbia, Sansone conservava la sua forza nei capelli. In Cina tagliare i capelli era un disonore, nell’antica Roma i soldati portavano barba e capelli corti per non offrire un punto di presa ai nemici; in Francia avere i capelli lunghi era un privilegio di re e di nobili.

Lo sciamano porta i capelli lunghi e sciolti per pregare e, danzando, entrare in contatto con il soprannaturale; gli eremiti li lasciano incolti per testimoniare il loro distacco dal mondo; monaci orientali e frati cristiani si rasano il capo come atto di sottomissione a Dio. Le peot, i lunghi capelli ai lati del volto degli ebrei ortodossi, sono in ossequio ad una prescrizione biblica. Nell’antico Egitto, quando un ragazzo guariva da una malattia, la famiglia gli tagliava i capelli e li metteva su di una bilancia, quindi versava il corrispettivo in oro e argento ai custodi degli animali sacri. Tagliarsi i capelli è anche un modo di esprimere il lutto: Iside compì il gesto dopo aver saputo della morte di Osiride.

Friedrich Nietzsche, filosofo tedesco, considerava i capelli “come una leggera trama cui agganciare i propri pensieri spirituali, quasi fossero un filtro di separazione del materiale e dell’istintivo da quello che è spirito e anima”.

Martina Chittani

(Per saperne di più: Herlinde Koelbl, Hair, Hatje Cantz editore)

Pelle fresca di stampa 23 febbraio 2011

Posted by michele&martina in tecnologia.
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Si chiama “bioprinter”, la rivoluzionaria tecnologia che permetterà di stampare frammenti di pelle mancanti direttamente sul paziente. La stampante 3D è stata presentata al convegno annuale della American Association for the Advancement of Science che si sta svolgendo in questi giorni a Washington,  da James Yoo della Wake Forest University School of Medicine di Winston-Salem.

La stampante è in grado di effettuare una scansione sulla ferita, determinandone esattamente forma, estensione e profondità. Questi dati vengono utilizzati per progettare in 3D il frammento di pelle da sostituire, che viene infine stampato direttamente sul paziente da una macchina del tutto analoga a una stampante inkjet. Si tratta di una speciale bioprinter che al posto dell’inchiostro utilizza un cocktail di cellule umane della pelle, collagene e silicone. Attualmente gli scienziati sono in grado di stampare frammenti di pelle di 10×10 centimetri e lo hanno già testato con successo su maiali e topi.

Concettualmente questa tecnologia potrebbe permettere la progettazione e la stampa di interi organi. Questo, oltre che risolvere il problema dei trapianti, permetterebbe di effettuare studi clinici e test farmacologici con grande facilità. Ma, anche se gli scienziati sono ottimisti, lo stato dell’arte della tecnologia non permette ancora di realizzare a macchina elementi complessi come un cuore o un fegato.

Martina Chittani

Il cervello in pancia 22 febbraio 2011

Posted by michele&martina in psicologia.
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Fin dall’antichità si afferma che la pancia (intestino) è la sede secondaria delle emozioni e principale dell’inconscio; ma per poter avere queste funzioni, occorre che la pancia abbia un “cervello” che possa elaborare i dati autonomamente da quello superiore. Recenti scoperte hanno confermato che il cervello enterico esiste, eccome, e che esso funziona autonomamente da quello superiore; i naturisti lo sanno molto bene, infatti non esiste malato che non venga curato iniziando dall’apparato digerente, la medicina ufficiale non lo considera neppure… nelle sue “terapie” sintomatiche! Come sempre più spesso succede, la medicina naturale e popolare, non solo non ha torto, ma addirittura viene sempre più confortata dalle ricerche e scoperte della scienza.

Le cellule endocrine dell’intestino, note in passato come cellule di Kuitschitzky, sono state definite paraneuroni, poiché sembrano essere la parte della rete neuronica dove si posiziona la mente reattiva/emozionale, parte di quella inconscia; questi paraneuroni, assieme ai neuroni della rete nervosa intestinale, colloquiano in armonia ed incessantemente con il cervello, attraverso il nervo vago. L’intestino quindi metabolizza emozioni e invia messaggi al “cervello principale”: stress e ansia ne alterano il funzionamento; ma è vero anche il contrario: i disordini intestinali possono provocare variazioni dell’umore.

Il “cervello enterico”, detto addominale o viscerale, quindi, non soprassiede solo alle funzioni vitali (ricerca del cibo, elaborazione delle sostanze necessarie alla vita delle nostre cellule), compito assai riduttivo per una così grande massa di neuroni. La natura ha previsto di investirlo di proprietà legate alle funzioni derivanti dalle emozioni e all’inconscio del soggetto; infatti le sue cellule producono neurotrasmettitori e proteine che contribuiscono al buon funzionamento del sistema nervoso centrale e quindi dell’intero organismo. Esso secerne delle sostanze psicoattive (che influenzano gli stati d’animo.

ll cervello enterico è in grado di metabolizzare e memorizzare le ansie e le emozioni, di elaborarle con quelle già memorizzate nell’inconscio in precedenza e di fornire risposte adeguate. Il cervello di sotto è in grado di recepire e riconoscere non soltanto i vari cibi introdotti, ma anche le sostanze velenose, in quest’ultimo caso, suscitando reazioni immediate per eliminarle. Il cervello di sotto, quindi, non è solo legato alle reazioni al cibo ingerito, ma può pensare, prendere decisioni, provare sensazioni autonomamente da quello di sopra, vedi la colite, l’ulcera, i bruciori di stomaco etc, che sono proprio malattie causate dallo stress (emozioni forti, non digerite). Un altro compito del cervello enterico è quello di organizzare l’insieme dei batteri che convivono in noi.

Al “cervello intestinale” sono affidate le decisioni viscerali, cioè spontanee e inconsapevoli, infatti l’inconscio risiede qui; l’encefalo assorbe le emozioni dagli organi di senso, dall’esterno come, irritazione, stress e rabbia, trasmettendole, successivamente, al secondo “cervello”, quello addominale. Infatti, noterete che con uno stato d’animo alterato, il malessere si ripercuote sullo stomaco e sull’intestino; di contro, se il vostro intestino fa le bizze, siete emotivamente stanchi e nervosi.

(Per approfondire: Francesco Bottaccioli – La saggezza del secondo cervello; http://www.sipnei.it)

Martina Chittani

 

La gravidanza come cura 21 febbraio 2011

Posted by michele&martina in medicina.
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Negli Stati Uniti, qualche anno fa, la ricercatrice Diana Bianchi ha documentato un’esperienza molto particolare: le cellule staminali del figlio ancora nel grembo hanno circondato un follicolo tiroideo della madre che aveva avuto una tendenza neoplastica, ritrasformandolo in cellule tiroidee. Individuando il tumore, dunque, le cellule staminali si sono differenziate in cellule tiroidee per curare e circoscrivere una lesione materna: hanno quindi la potenzialità di riparare danni ad organi della gestante, trasmettendo benefici alla sua salute.

Cellule fetali si possono rintracciare nel sangue periferico, nella cute e nel fegato della madre anche 35 anni dopo la nascita del bambino. In seguito all’impianto dell’embrione, dal 12° giorno in poi, globuli bianchi del figlio si ritrovano nel midollo osseo e nel circolo sanguigno della donna, così come gli eritroblasti (precursori dei globuli rossi); si nota anche la presenza di cellule staminali. Uno scambio reciproco, quindi, che non riguarda soltanto la madre nei confronti del figlio, ma anche il nascituro nei confronti della gestante.

E’ ben noto chel’unità feto-placentare e l’organismo materno comunicano soprattutto attraverso la produzione di composti biochimici e ormonali. Infatti, si può affermare che tutti i bisogni metabolici e vitali del feto sono trasmessi alla madre attraverso una sorta di “dialogo” fatto di sostanze ormonali e composti biochimici prodotti dal feto con la mediazione interna della placenta. Attualmente è noto che questo traffico materno-fetale attraverso la barriera placentare include anche cellule di origine fetale che circolano nel sangue materno, colonizzano vari tessuti e lì rimangono e si moltiplicano per tutto il resto della vita della donna.

Il “microchimerismo” si riferisce appunto alla presenza in un determinato individuo di una piccola popolazione di cellule o di DNA che deriva da un altro individuo geneticamente distinto. Il feto invia dunque alla madre piccole quantità di diversi tipi cellulari tra cui cellule del trofoblasto, cellule linfoidi, cellule eritroidi e cellule staminali. Durante la gravidanza le cellule staminali del feto possono accorrere a riparare lesioni in organi e apparati nel corpo della madre. Tale fenomeno di “rimpiazzo tissutale”, oltre che nell’adenoma tiroideo studiato dalla dott.ssa Bianchi, è stato confermato anche per altre malattie materne quali l’epatite C e l’infarto del miocardio. Si può dire che le conseguenze mediche della gravidanza si estendono e si prolungano ben oltre il parto e forse sta anche in questo il segreto della maggiore longevità delle donne rispetto agli uomini.

Insomma, il bambino si prende cura di sua madre fin dal momento della gestazione.

Martina Chittani

Le proprietà farmacologiche del cioccolato fondente 20 febbraio 2011

Posted by michele&martina in alimentazione.
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Il cioccolato, si sa, fa bene all’umore, ma possiede anche proprietà farmacologiche interessanti, grazie al suo elevato contenuto di flavonoidi.

Il consumo di cioccolato fondente riduce significativamente i valori pressori e la sensibilità insulinica nel paziente iperteso e intollerante al glucosio. Altre ricerche in vitro hanno dimostrato inoltre come i flavonoidi del cacao possano migliorare la funzionalità endoteliale dei vasi e modulare favorevolmente i livelli di citochine ed eicosanoidi coinvolti nei processi infiammatori.
Uno studio condotto su oltre 19000 individui ha evidenziato che il consumo di circa 7.5 g di cioccolato nero al giorno riduce del 39% il rischio di accidenti cardiovascolari acuti (Buijsse B et al. 2010). Il cioccolato è un alimento ricco di polifenoli, in particolare di catechine ed epicatechine. La quantità totale di polifenoli varia in relazione al tipo di cacao impiegato e alla sua lavorazione. Mediamente, nel cioccolato fondente si ritrovano 1-2 grammi per etto, quantità molto elevate che non si ritrovano in nessun altro alimento, neanche nel tè verde, nel vino rosso o nel mirtillo, notoriamente ricchi di questi componenti.

L’attività benefica del cioccolato sul sistema cardiovascolare è stata segnalata da tempo. Più recentemente è stato osservato che l’assunzione di 6,3 g/die di cioccolato nero era capace di normalizzare la pressione arteriosa in soggetti con malattia ipertensiva allo stadio iniziale, inducendo riduzioni medie di 2-3 mmHg (Taubert D et al. 2007) . Questo effetto è stato attribuito alla formazione di ossido nitrico che viene stimolata dai componenti del cacao. Infatti, la dilatazione vascolare e l’elasticità delle arterie migliora dopo ingestione di cacao (Heiss C et al. 2003). Inoltre, il cioccolato protegge dall’ossidazione le lipoproteine a bassa densità LDL (Wan Y et al. 2001), fattore di rischio importante per le patologie cardiovascolari.
Se ancora i sensi di colpa vi assalgono per aver abusato un po’ troppo cioccolato, se non vi ho ancora convinto abbastanza sulle proprietà terapeutiche del cioccolato, vi do un motivo in più per stare tranquilli. Il cioccolato, infatti, non è solo promessa di gioia momentanea e di fuggevole godimento, come pare, peraltro autorevolmente, suggerire Marcel Proust, citando la sua amata “fuggitiva e leggera” cioccolata calda.

È, infatti, oggi più che largamente provato che cioccolato significa, in termini scientifici, anche energia e salute. Basti pensare alla tradizionale convinzione che il cioccolato “rovini i denti“: ebbene, i ricercatori bostoniani del Massachussets Institute for Technology, hanno invece scoperto che il cacao contiene addirittura un potente inibitore della carie!
Tra l’altro secondo una ricerca effettuata da un’équipe dell’Università di Osaka, in Giappone, e pubblicata sulle pagine della rivista “New Scientist“, il cacao aiuta a prevenire e combattere la carie più di qualsiasi dentifricio in circolazione: la sorprendente tesi poggia sulla scoperta che gli agenti antibatterici contenuti nel cacao hanno la meglio sugli zuccheri di qualsiasi dolciume, riducendo perciò il rischio carie. Questi agenti – spiegano gli scienziati – sono presenti soprattutto nella buccia dei semi di cacao, normalmente buttata via durante la produzione del cioccolato. Ed è un peccato, perché se fosse aggiunta a collutori e dentifrici, ne aumenterebbe l’efficacia.

Chiunque volesse farsi del bene, quindi, può assumere cioccolato fondente, sempre in ragionevoli quantità: forse non basterà a prevenire le malattie cardiovascolari, ma sarà un piccolo piacere che gratificherà l’umore.

Martina Chittani